Nessuno nasce all'improvviso. Ciascuno di noi è il continuum della storia della propria famiglia e della propria comunità. Il percorso che hanno fatto i nostri predecessori è indelebilmente scolpito nel nostro essere e diventa la “cultura” personale, di una famiglia, di una comunità e di un popolo.
Per questo anche l’analisi della condizione socio-politica attuale delle popolazioni sublacensi non può prescindere dal percorso storico che questa comunità ha compiuto dagli albori della civiltà.
E’ necessario quindi riguardare alla storia delle nostre popolazioni per comprendere cosa sta succedendo ai nostri giorni. Purtroppo da una simile analisi sale l’amaro dubbio che da Cincinnato in poi le cose non siano cambiate di molto.
Partiamo infatti da lì, intorno al 450 prima di Cristo, quando i Romani scomodarono Cincinnato dal suo orto per infliggere agli Equi una grave sconfitta militare presso il Monte Algido. I Romani avevano constatato che gli Equi erano fastidiosi (avevano invaso Labico e Tuscolo) e di loro non potevano fidarsi (avevano infatti violato il trattato di pace appena sottoscritto). Ma chi erano gli Equi? Un popolo fiero e generoso sicuramente, ma diviso in colonie (Vici e Oppida) non necessariamente solidali tra loro e soprattutto senza un re o principe che li unisse. Tito Livio cita costantemente gli Equi come popolazione ostile a Roma nei primi tre secoli di esistenza della città, ed essi infatti si distinguevano per imboscate e saccheggi. Così gli Equi guadagnarono la nomea di nemici eterni dei Romani.
Oggi è molto differente da allora? Forse no.
I Romani decidono di farla finita con gli Equi sul finire del 300 avanti Cristo. Giunio Bruto li sconfisse definitivamente pianificando la colonizzazione romana di questi territori (Alba Fucens, Carsioli) per evitare guai futuri dagli Equi. L’insediamento della Tribù Aniensis nell'Alta Valle dell’Aniene risale proprio a quel periodo.
I Romani 2300 anni fa, tramite la Tribù Aniensis, scoprirono le bellezze e le risorse dell’alta valle dell’Aniene e chiaramente decisero di utilizzarle per Roma. Scatta a mio avviso proprio in quel periodo una convinzione nelle mentalità Romana e Straniera in generale: l’Alta Valle dell’Aniene è un territorio stupendo e pieno di risorse purtroppo abitato da popolazioni fastidiose!
Questo è il tema che ha attraversato i secoli: potentati esterni che, susseguendosi, si godono le ricchezze dei luoghi sublacensi al prezzo della gestione dei rompiscatole che vi abitano!
E’ uno stilema che sistematicamente attraversa varie epoche storiche. Il primo importante sfruttamento riguarda la nostra acqua. Da subito i Romani si portano a casa l’acqua dell’Aniene; i quattro acquedotti romani non sono forse gli antesignani delle moderne captazioni del Pertuso? Cosa è cambiato da allora? Probabilmente niente. I Romani inviano poi a manutenere questi acquedotti nutrite colonie di schiavi Epiri e Daci che contribuirono a segmentare le comunità locali. Se gia gli Equi erano tra loro divisi, inserendo ulteriori gruppi etnici veniva ulteriormente diluita l’autocoscienza delle popolazioni locali, anche se aumentava la necessità del loro controllo. E Nerone? L'imperatore si fece costruire qui una enorme e stupenda villa che, come un diadema, abbelliva la conca di Subiaco con i suo tre laghi artificiali (ammesso e non concseeo che fossere tre). Ma quanto vi risiedette? Un giorno. Un solo giorno! Tradotto: un bel posto da visitare ma non certo un posto dove vivere!
E così nell'immaginario collettivo della cultura dell’epoca le popolazioni locali spariscono, mentre resta molto viva la fama della bellezza dei luoghi. Gregorio Magno infatti individua Subiaco, dove il giovane San Benedetto si ritira, come un luogo deserto (Deserti loci) forse non perché la vallata fosse disabitata, ma forse perché vi abitavano popolazioni prive di rilevanza per la storia. Egli stesso poi si contraddice segnalando che nel posto vivevano dei piantagrane, come quel Prete Fiorenzo, invidioso e dispettoso a tal punto che costrinse il Santo a fuggire verso MonteCassino.
Qui il tema si completa e si riproduce nei secoli: personaggi internazionali investiti da un potere esterno diventano essi stessi la storia della valle per l’assenza di potentati locali, salvo poi abbandonarla appena opportuno. Abili sfruttatori delle risorse, non sopportano a lungo l’incombenza della gestione delle popolazioni che vi abitano.
Nel 1053 il Francese Umberto, costruendo la sua torre campanaria, non annovera tra i suoi possedimenti Subiaco e le sue popolazioni già note per “indisciplina”. Sarà Giovanni V, della potente famiglia degli Ottaviani, nel 1071 a prendere il controllo di Subiaco e a costruirvi la Rocca, che oggi decantiamo come un simbolo della città ma che, come ogni castello, porta con sé un chiaro messaggio di dominio e oppressione.
I primi secoli del mille sono pieni di episodi di lotta e repressione tra i locali e i potentati forestieri che governavano il territorio. Il più eclatante e poco conosciuto è la decapitazione alla Rocca di alcuni sublacensi, con annesso lancio delle teste mozzate nella sottostante piazza. Ed è in quel periodo che l’Alta Valle dell’Aniene perde il treno del cambiamento storico: non riesce a completare il passaggio a comunitas, non si crearono cioè le condizioni per diventare un Comune indipendente alla stregua di ciò che stava succedendo nel resto dell’Italia. Restammo confinati allo schema degli Equi, divisi e fastidiosi senza la capacità di sviluppare un potere autonomo.
Anche lo spagnolo Torquemada, infatti, con il suo statuto del 1456, non cede il governo effettivo del territorio alla comunità locale, ma certifica quasi esclusivamente le regole per governare l’indisciplina degli abitanti. Se analizziamo criticamente poi il rapporto del Borgia con il territorio possiamo concludere che Rodrigo usava Subiaco praticamente come un “pied-a-terre” per la sua amante, per tenerla lontana dai palazzi romani quando dava alla luce i suoi figli. Al contempo il Cardinal Borgia costruì il Torrione della Rocca per aumentare ancor di più il senso di assoggettamento delle popolazioni che governava. E non esitò un solo istante a sbarazzarsi di questa valle in cambio di voti nel Conclave!
Una sequela di prìncipi forestieri suceddette a Rodrigo. Investiti da un formale potere ecclesiastico, governavano il territorio come fosse una colonia, presenziando raramente e affidando gli affari correnti ad amministratori locali di fiducia che, spesso e volentieri, perseguivano i propri interessi piuttosto che quelli del principe o della comunità. Qui si incarna nella cultura sublacense una sorta di sindrome di Stoccolma. Il potente forestiero è visto ora come il salvatore della patria ora come un mezzo per arricchirsi, ma mai come uno che in realtà sta sfruttando il sublacense per il proprio tornaconto. Il potente forestiero cioè viene a Subiaco per i propro interesse e non per salvare la storia dei suoi abitanti.
Eccellente eccezione è Pio VI. Il Braschi, infatti, prima di diventare Papa, visse a Subiaco circa un anno, amministrando direttamente il suo principato risiedendo nel territorio. Da Papa quindi conservò l’amore per questa terra e sicuramente fu l’ultimo (o anche il primo) principe che effettivamente cambiò Subiaco. Ma i sublacensi non tradirono la propria indole e anche il Braschi ne fece le spese. Molti dei denari inviati per la costruzione della Basilica di Sant’Andrea da lui fortemente voluta, vennero “distratti” dallo scopo a cui erano destinati e il tempio alla fine risulto' molto più piccolo di quanto il Papa avesse pianificato.
Questa fama di popolazione di difficile gestione attraversa poi anche il risorgimento. Il povero Capitano Garibaldino Emilio Blenio sicuro di avere appoggio dai sublacensi per l’insurrezione del 1867, non riesce a coinvolgere praticamente nessuno e perde la vita nel centro del paese ucciso dagli zuavi. I piemontesi, entrati a Roma il 20 settembre 1870 a Porta Pia, il giorno successivo si precipitano a Subiaco per prenderne possesso. Evidentemente anche i Savoia temevano le intemperanze sublacensi.
Lo stesso nel 1943. Il nove settembre, un giorno dopo l’armistizio, i Tedeschi, sotto il comando di Graziani, entrano a Subiaco e ne prendono possesso; anche loro evidentemente preoccupati di eventuali fastidi provenienti da questa valle.
Tutti i poteri precostituiti si sono quindi sempre preoccupati di tenere sotto controllo le popolazioni dell’alta valle dell’Aniene, ma non di ascoltarne i bisogni e aumentarne la qualità della vita.
I preconcetti sulle popolazioni sublacensi hanno quindi attraversato la storia per arrivate quasi intatti ai giorni nostri. Qualsiasi sublacense abbia frequentato ambienti romani, per lavoro o per studio, percepisce la sensazione di essere considerato una sorta di alieno piovuto da un territorio sperduto e selvaggio anche se bellissimo.
In sintesi questi gli stereotipi culturali che ci riguardano:
- Considerati da Roma (e dal mondo esterno) come forieri di problemi
- Governati sempre da forestieri perché impossibilitati ad autogestirsi
- Pronti ad accogliere il potente forestiero nella speranza di “scucirgli” qualcosa
- Inclini a boicottare il paesano pur di non vederne il suo successo
Ecco i veri canoni della nostra comunità. Ecco spiegata l’attuale situazione socio-economica del sublacense. La combinazione di questi quattro canoni può spegnere sul nascere le velleità di crescita della nostra valle.
E oggi? Il quadro non è cambiato molto, anzi, la crisi economica ha ulteriormente aggravato la situazione. Ora oltre ad essere una popolazione fastidiosa e senza controllo risultiamo anche “costosi”. Allora via l’ospedale, via i trasporti tra i paesi, via uffici pubblici, via tutto. Da Roma hanno deciso di non pagare più i tanti servizi a disposizione delle popolazioni sublacensi. Sembra come se sia stato pianificato lo spopolamento controllato della valle. Quindici ventimila montanari da accudire sono un costo che Roma non vuole più sostenere. Per custodire la Valle, il Parco, il Fiume, le Montagne probabilmente basta meno gente, gli altri è meglio che affollino le periferie oltre il raccordo anulare, pullulanti di appartamenti sfitti.
In questa condizione comincia ad essere insopportabile anche il mantra che da decenni ci sussurrano nelle orecchie: “Subiaco deve vivere di turismo…”. Anche in questo caso si rischia come subdolo risultato finale un assoggettamento ai forestieri. Non più ad un singolo principe, ma a una mentalità romana che vede nella nostra valle nient'altro che un simpatico diversivo per un week-end fuori porta. E purtroppo in molti da queste parti si sono autoconvinti che il destino dei custodi di “parco-divertimenti” dei romani sia l’unico scenario possibile. Ed è giusto allora che la gente da qui se ne vada. Di custodi ne servono pochi!
C’è un modo per invertire la rotta? Chiaramente tutti cambiamenti culturali richiedono tempo, costanza e chiarezza di obiettivi.
Sono due i passaggi da fare:
- Diventare finalmente artefici del proprio destino rifiutando ogni ingerenza dei poteri romani sulla autodeterminazione del nostro governo
- Ricondurre il paradigma dello “sviluppo turismo” a sottoprodotto del concetto di “Produzioni Locali”
Dobbiamo acquisire una identità propria di sublacensi, perché solo noi possiamo salvare noi stessi. Dobbiamo diventare così forti da rigettare ogni condizionamento proveniente dai poteri forestieri!
Chiaramente se iniziamo oggi vedremo i risultati tra anni.