Brano vincitore del Terzo Premio del Concorso Letterario "Giovanni Petrini" edizione 2012

 

 

 

Un’Amante. Languida e maliziosa, adagiata da secoli lungo il letto dell’Aniene, ultima sentinella a difesa delle aspre gole dei Simbruini. Il braccio delle case del colle, il Rione Papa Braschi, mollemente adagiato sul cuscino, i capelli raccolti dal prezioso fermaglio della Rocca, le due chiese come orecchini, alla vita la ricca fibbia dell’Arco Trionfale, la vezzosa giarrettiera del Ponte di San Francesco, le lunghe gambe distese verso Sant’Angelo, e le trasparenti vesti delle case di campagna, sparpagliate tra Montore e Vignola.
Ricordo quel freddo giorno di febbraio, da San Biagio, ad ammirarti beato mentre intorno friggeva sul fuoco carne di maiale. O quella domenica di Agosto dalla Crocetta estasiato a scrutare tutti i tuoi minuti dettagli, incurante della canicola di mezzogiorno mentre Don Nazareno dismetteva i panni della celebrazione eucaristica. O quella sera di ottobre, da Morra Ferronia, a contemplarti stupito alla luce inversa del tramonto. O tutte quelle volte che salendo verso Livata ho fermato la macchina per studiarti da altre angolazioni, sempre nuove e sempre conosciute. O perfino da bambino, in inverno, dai Cesali, mentre con i compagni rubavamo il muschio per il presepe scolastico, fermo ad osservarti tra le fronde, come dietro ad un discreto e traforato separé.

Una Madre. Premurosa e protettiva, pronta ad introdurti alla vita. La spiritualità, la religiosità e le tradizioni. Quante volte ci hai preparato giorni di festa per capire e condividere il senso della famiglia, per maturare convinti la devozione a San Benedetto, il rispetto e l’amore per i suoi monasteri, mai appartenuti a te e a cui tu non ti sei mai sentita veramente appartenere. Quante volte per mano ci hai accompagnato alle tue lente e struggenti processioni, a piangere tra i foconi il Cristo morto, a gridare con Maria “Misericordia” in un ancestrale rito di appartenenza, a cantare ispirati, stanchi e pellegrini, di ritorno dai monti della Santissima, o ad anticipare gli auguri di Natale all’alba del 24 anziché attendere la sera.
E di quanti nonni ci hai narrato, di quelli simpatici e di quelli sfortunati, di quelli scaltri e di quelli ingenui, di quelli ricchi e quelli poveri, tutti diversi ma tutti accomunati dalla subbiaccianità che li ha sempre fatti sentire uniti. E quella lingua che hai insegnato loro, strana e cupa, potente livella che metteva tutti nello stesso piano, affamati e sazi, istruiti ed ignoranti, lingua a cui ispirati tuoi figli poeti hanno donato musicalità e leggiadria. Frasi, parole e detti che, ovunque uditi, ti regalano la gioia rassicurante di sentirti a casa.

Una Fata. Buona e premurosa, nascondi sorprese che ammaliano chiunque le trovi. Nerone, l’imperatore, bevve la tua pozione magica e non seppe sfuggirti, costruendosi l’enorme villa. Santi, papi ed eremiti estasiati dai tuoi luoghi, rimasero a lungo presso di te. Pittori ed artisti cedettero ai tuoi incantesimi, ritraendoti e narrandoti con immortali opere, e ancor oggi, a chi ti scopre appari ammaliante e fatale. Noi abbiamo bevuto giornalmente il tuo filtro magico, nei giochi tra i vicoli, nelle passeggiate sotto i faggi, nelle scappatelle alla Parata e nei tuffi al Laghetto delle Signorine che, ahimè, oggi non esiste più. E poi raccogliendo asparagi, cercando funghi, pescando trote, mangiando polenta, strozzapreti, e frascarelli. Impossibile resisterti.

Una Strega. Crudele e subdola, ti sei circondata tutt’intorno di monti per darci l’illusione che oltre te ci fosse il nulla, che era inutile cercare altro, che il mondo iniziasse e finisse con te, che tu stessa fossi il centro del mondo. Ingannevole rifugio ci hai stregati con giorni sempre uguali e fissi, castello incantato dove il tempo non passa mai, dove tutto è uguale a se stesso. I tuoi dolci veleni inebrianti ci oscurano la mente, facendoci progettare imprese e gesta che poi non saremo mai in grado di attuare. Chi è andato via da te torna il meno possibile, nella paura che i tuoi sortilegi lo catturino di nuovo tra le tue spire.

Ma qualcosa è cambiato. I tuoi incantesimi sono diventati deboli, i tuoi sortilegi ormai inefficaci. Ogni volta che torno da un viaggio mi accorgo sempre più che la tua cipria è ingiallita, il tuo rossetto avvizzito. Cosa ti è successo? Perché le tue strade sono sempre più vuote, le tue piazze sono sempre più vuote, le tue chiese sono sempre più vuote? Un sottile senso di degrado ti ammanta tutta. Cosa si è inceppato? Forse ci siamo disillusi: tu sempre sul punto di concederti e noi ormai stanchi di attendere le tue promesse gioie, regina crepuscolare delle rose non colte, delle cose che potevano essere e non sono state. Di te ora preferiamo discutere solo su Internet e non più al Monumento, luogo sparito inesorabilmente nel nulla. Non più coscienza collettiva, non più gioia di tutti, ma stanca Mimì a cui non si riesce a scaldare la gelida manina.

Quando ci hai abbandonato? Quando ci hai tradito? Forse siamo stati noi a tradirti! Noi che non siamo riusciti a rispettarti e ad onorarti, noi che non ti abbiamo concesso le dovute attenzioni, noi che non abbiamo nutrito il nostro rapporto con i giusti regali, noi egoisti parassiti sempre in attesa che fossi tu a darci qualcosa. L’amore vero è quello che dona, noi da te invece abbiamo solo pretese.

Sei bella, sei ancora bella, ma bella come una diva del cinema muto, ancora disperatamente appesa alle tende mentre tutto il mondo è da tempo passato al sonoro. Ti salverai? Il tuo destino è nelle nostre mani, in quelle stesse mani che ti hanno ridotto in questo stato, schiava crisalide mai divenuta farfalla.