E’ impressionante, viaggiando da Subiaco per Roma, notare lungo il corso del fiume Aniene i moltissimi terreni, solitamente infestati da erbacce e rovi, quest’anno invece arati e zappati alla perfezione e le prime timide piantine che cominciano a farvi capolino tra le zolle. Da decenni probabilmente non si assisteva a questo spettacolo nella pianura fluviale: i terreni incolti in minoranza rispetto alla parte coltivata. Un fenomeno assolutemente spontaneo ha evidentemente riportato la popolazione del territorio a riconsiderare fondamentale il lavoro della terra. Non siamo infatti in presenza di nessun piano di sviluppo agricolo promosso da enti pubblici locali o regionali (a Subiaco ad esempio non esiste neanche l’assessorato all’agricoltura) o in presenza di una massiccia campagna di convegni sul tema. No! La “gente”, di propria iniziativa, ha di fatto rimesso ai primi posti della scala dei valori la cura della terra. Probabilmente il combinato disposto della crisi economica e della crisi di credibilità dei cibi da produzione industriale ha fatto scattare quella molla che ci restituisce finalmente discendenti di quella fantastica e millenaria cultura contadina frettolosamente abbandonata nella valle, e fors’anche rinnegata, alcuni lustri or sono. La cura della terra ora invece inizia ad essere considerata una  mancipazione personale, lo spazio del futuro dove scatenare positive pulsioni rivoluzionarie.

 

 

 

Cominciano parallelamente anche a nascere eventi e mercatini che tentano di favorire la cultura delle “colture”, eventi sorprendentemente promossi da gruppi di giovani del territorio. In questo contesto potrebbero anche ritrovare valorizzazione quel paio di anziane contadine che a Subiaco sono ancora ostinatamente in grado di portare al mercatino rionale qualche cesta di vimini con i prodotti del proprio orto, prodotti assolutamente di stagione e veramente a chilometri zero. Sarebbe bello se il numero di queste ceste nei prossimi anni aumentasse, per il successo dei produttori e la soddisfazione dei consumatori. Ed è in questo “solco rivoluzionario” che va sottolineata una storia di successo: l’agenzia regionale per l’agricoltura del Lazio, l’ARSIAL, ha riconosciuto lo Zafferano della Valle dell’Aniene come “Prodotto Tipico”, emanando un disciplinare che ne stabilisce il metodo di coltivazione. E’ il successo della storia di Marco, in zona uno dei pionieri al ritorno della coltivazione della terra. Lo incontrai qualche tempo fa. Ad Affile aveva già iniziato a sperimentare la coltura dei crochi da zafferano con discreto successo e si meravigliava di come un prodotto tipico dell’agricoltura di montagna non fosse mai stato coltivato da queste parti. Anzi, era certo lo fosse stato, ma non si riusciva a rinvenire documentazione storica che ne attestasse la presenza. Anche un singolo documento poteva rivelarsi utilissimo per chiedere all’ARSIAL il riconoscimento di prodotto tipico. Fu un istante. Mi ricordai del conciso passaggio di Livio Mariani nel suo libro del 1834 “Storia di Subiaco e suo distretto Abbaziale”. Il Mariani biasimava i potenti locali per aver indotto i contadini del sublacense ad abbandonare la coltura del tabacco e dello zafferano a vantaggio del granturco, la cui coltivazione secondo l’autore non era assolutamente favorita dal clima. Fornii a Marco tutti i riferimenti bibliografici e l’opera del Mariani ha permesso allo Zafferano della valle dell’Aniene di ottenere l’importante riconoscimento di prodotto discendente da colture tradizionali locali. Ora lo zafferano di Marco viaggia lontano, anche sulla spinta di questo attestato storico.

Quello dello zafferrano è sicuramente l’esempio da seguire: la giusta sintesi tra ritorno alle radici, valorizzazione delle peculiarità locali, qualità della produzione e spirito imprenditoriale moderno. Chissà se sullo Zafferano e su altri prodotti agroalimentari di qualità, non si possa costruire il nuovo benessere, non solo economico ma anche sociale, del territorio del sublacense.