Avevo cinque o sei anni, e Subiaco per i bambini era un immenso parco giochi. Io abitavo in Piazza, e, giuro, era normale per uno come me uscire da solo per andare a cercare compagni di giochi.

Era facile. Pochissime le macchine, attraversavo la strada davanti al Monumento e poi giù a perdifiato sotto l’arco dei Ferrari, l’entrata autorizzata nella mia sezione di parco giochi. Il Campo, il Colle, lo Scarico, le Fontanelle, ‘Mpella Piajia, il Pastificio, i Piattari, quello era il territorio dove potevo spaziare.

Pericoli in giro? Quelli legati alla vita all’aperto: ginocchia sbucciate, graffi vari, qualche sassata qua e là e ficozzi di ordinanza. Raramente qualche incidente grave, come quella volta che a quattro anni per poco non persi un occhio. Trovammo il coperchio di latta di un barattolo grande della conserva di pomodoro. Via, allo Scarico della Cartiera a farlo rotolare più e più volte lungo la discesetta in mezzo ai rovi, dove solitamente coi cartoni facevamo la sciricarella. Un rimbalzo anomalo e il disco metallico mi colpisce, tagliandomi, sulla coscia destra e appena sotto l’occhio sinistro, ad un centimetro dalla disgrazia. Con un po’ di attenzione la cicatrice si nota ancora oggi.

A pallone, a tana, a tanapallone, a pallina e bucetta, a libertà, a mondo, a guera tra Campo e Colle, non sapevamo cosa significasse la noia.

Il segnale convenzionale per interrompere i giochi pomeridiani era la mitica “accensione delle luci”, il primo segno di progresso che entrava prepotentemente nella nostra vita quotidiana. “Torna a casa quando si accendono le luci” era l’ultima cosa che sentivo dire da mia madre mentre, uscendo, chiudevo la porta . “Siiiiii” le rispondevo sorridendo ma gia divoravo le scale di casa. In inverno era semplice perché il buio scendeva subito, ma d’estate, con le giornate dilatate a dismisura, l’accensione della pubblica illuminazione arrivava troppo tardi. Così il riferimento fondamentale diventava la sirena della Cartiera. Potente, categorica e puntuale, alle diciotto segnalava che il tempo stava per scadere. Era fondamentale rientrare a casa prima o, al massimo, insieme ai papà, e io ci riuscivo quasi sempre. Ricordo però benissimo le poche volte che fallii l'obiettivo.

Intere giornate passate per strada, normale per i bambini dei tempi. I vicoli e i quartieri erano una grande famiglia: tutti conoscevano tutti e, come una silente rete di sicurezza, gli adulti di passaggio controllavano discretamente tutti i bimbi in giro. Una tacita delega reciproca tra genitori, zii e nonni.

Io sono nato in Piazza, zona istituzionale priva di identità di quartiere, ma i miei erano originari del Campo e così in quella zona ero considerato di casa: accettato dai coetanei e controllato dagli adulti. Risalendo le mie discendenze paterne e materne tutti mi riconoscevano facilmente. La famiglia di papà aveva da sempre abitato vicino all’Arco di Mappone, mentre i miei nonni materni abitavano ancora ai Piattari.

I Piattari sono una sorta di zona franca: una specie di metropolitana che collega il Campo, il Colle e l’Officina non appartenendo però a nessuno di questi rioni. In verità i Piattari finiscono sotto il ponte della Cartiera, tutto il resto è La Via Sotto.

Mia nonna, Giovannina Raschietta, abitava proprio vicino al ponte della Cartiera dove, in uno stesso palazzo, abitavano anche zia Maria e zia Adelaide, le sue sorelle. Tutte con le rispettive famiglie. Erano un po’ il nucleo principale della zona e, chissà perché, mia nonna sembrava la capobanda. Si volevano bene, di quell’affetto competitivo che può esistere solo tra sorelle.

Mia nonna era il mio punto di riferimento sul posto; spesso la avvisavo arrivando o quando andavo via e l’andavo a cercare per ogni necessità o esigenza di gioco.  

Nonna, le sue sorelle e le sue amiche solitamente si radunavano nella piazzetta sotto il ponte della Cartiera, proprio di fianco alla porta di casa. Sul palazzo di fronte un’immagine della Madonna dominava la scena.

Un raduno di donne di vicolo era un consesso speciale. Ciascuna portava con se la propria sedia di paglia, la stessa usata per sedersi di fronte al camino o a tavola e tutte indossavano l’immancabile grembiule, anzi ju zinale, segno che quella riunione era parte integrante delle faccende di casa. In una tasca del grembiule la corona del Rosario, nell’altra quasi sempre qualcosa da mangiare e nelle mani il lavoro a maglia o all’uncinetto.

Sono sicuro: in quel momento la stessa scena si stava ripetendo in qualsiasi altro angolo, vicolo o piazzetta di Subiaco. Era il rituale standard della socialità femminile del paese.

Nonna Giovannina, zia Maria e zia Adelaide, Lucia, Maria, Marietta, Matilde, Quintilina, Santina, Giuseppina e Deodata; di alcune ricordo le sembianze, di altre solo i nomi che riempivano le chiacchierate tra nonna e mamma.

 

Rito iniziale il Rosario, meccanico e ripetitivo ma pieno di devozione, poi via libera al dipanarsi di racconti sulle proprie quotidianità e su quelle altrui, soprattutto se “altrui” in quel momento era assente! “Ma si vistu che ha successo…” era l’incipit standard per ogni tema di discussione.

Non discettavano di filosofia teoretica, ma parlavano di semplice e pura vita. A chi fossero venuti meglio quella mattina al forno i ciammillitti, il pane o le pizze; se le galline in quel periodo stessero fetando; se la luna era buona per la semina o per il raccolto; se la figlia del tale si fosse fidanzata  o lasciata con quel noto giovanotto; e intanto l’ago per il rammendo di una calza, i ferri per finire la coperta a maglia, l’uncinetto a completare un centrino da mettere sotto la statuetta di qualche santo.

Donne che avevano attraversato il periodo della guerra e della fame, che avevano partorito figli e figli, cresciuti poi con affanno nella quotidianità delle ristrettezze. Donne minute e provate ma tenaci e risolute che per anni avevano assolto, quasi sempre brillantemente, l’incombenza giornaliera di portare a tavola qualcosa con cui sfamare mariti e prole.

Già, i mariti. Nella vita del vicolo non c’erano. Comparivano d’improvviso, alla fine del lavoro, dopo la visita in chiesa o la puntata all’osteria. Figure aliene il cui arrivo sulla scena determinava quasi sempre il rincasare della relativa moglie.

Dal punto di vista climatico i Piattari sono una zona particolare: d’inverno i palazzi alti e stretti riparano la zona dai venti gelidi, ma impediscono al sole di penetrarvi per quasi tutto l’anno. Solo nei caldi pomeriggi estivi, con il sole a perpendicolo sulla mastodontica sagoma della chiesa di Sant’Andrea, i raggi solari infiammano i Piattari, luogo senza alberi o pensiline.

D’estate, quindi, con troppo sole sulla piazzetta e i raggi brucianti infiltrati fin sotto il ponte della Cartiera, il vicolo diventava un forno. Dove spostare allora il muliebre ritrovo pomeridiano?

Ecco, sotto l’arco dei Piattari!

Appena all’inizio della salitella dei Piattari, sulla destra arrivando dalle Fontanelle, si apre un piccolo sottopasso, in un palazzo ricostruito dopo i bombardamenti. Porta ad uno spiazzo sotto la Cartiera, con una casa ed alcune cantine. Lo sperone destro del vecchio arco, che immetteva proprio in quella che doveva essere la zona dei laboratori dei fabbricanti di piatti, è comunque ancora visibile.

Orientato sud-nord, l’arco dei Piattari era il luogo ideale per le sessioni estive delle riunioni di nonna. Lei e le sue amiche si nascondevano lì sotto, a caccia di ombra e di fresco nei pomeriggi d’estate.

Io di solito arrivavo di corsa dallo Scarico e, sfruttando la spinta della ripida discesa, passavo a velocità supersonica davanti all’arco. Nascoste nel sottopasso non le vedevo quasi mai. La voce di nonna mi sorprendeva alle spalle, mentre ancora correvo, pronunciando il mio nome e allora la ritrovavo, lei e le amiche, lì, sotto l’arco, tutte all’ombra e tutte serene.

Sotto quel basso soffitto apparivano ancora più minute e indifese, ma a pensarci bene avevano i sorrisi scaltri di chi ben sapeva come adottare semplici e furbe soluzioni.

La vita di quelle donne era alimentata da piccole soddisfazioni: i dolci venuti perfetti, un bel mazzetto di erbetta da vendere al mercato, la custodia di tradizioni familiari da ripercorrere rigorosamente anno dopo anno, un bel pomeriggio estivo passato al fresco insieme alle amiche del vicolo.

Tempo dopo, mentre stavo armeggiando con videoregistratore e telecamera intorno ad una grande televisione a colori, mia nonna, che era venuta a vivere con noi, mi spara una domanda lapidaria: “Eh figliu me’, ma comm’è che tutte ‘ste cose che ci stau mo’ prima non ci steanu?”. E già nonna, forse avevi colto nel segno: anche quando tutte le modernità non esistevano si poteva vivere felici ugualmente. Chissà se in fondo non erano più facili i tuoi giorni, passati in compagnia delle amiche sotto l’arco dei Piattari, che i nostri, affollati di impegni sotto la dittatura del computer. Forse pensando di semplificarci la vita la stiamo irreparabilmente complicando.

C’è dato di vivere l’epoca che ci riserva il destino, ma chelle de Subbjacu come nonna incarneranno per sempre l’essenza della semplicità del vivere.